Responsabilità 231

Sequestro per equivalente dei beni delle persone fisiche amministratrici della società se il patrimonio della società, imputata per responsabilità 231, risulti insufficiente

17 Febbraio 2020

Possono essere oggetto di sequestro per equivalente i beni delle persone fisiche amministratrici della società se il patrimonio della società, imputata per responsabilità 231, risulti insufficiente (Corte di Cassazione, sentenza n. 1676 depositata il 16 gennaio 2020)

La Corte di cassazione con la sentenza commentata, ha rigettato i ricorsi di G.R. e C.C., rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione ed amministratore delegato della società B. s.p.a.  con cui veniva impugnata l’ordinanza del Tribunale del riesame  di Torino, adito ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen., che aveva confermato il decreto emesso dal G.i.p.,  che aveva disposto il sequestro preventivo anche per equivalente, del profitto di euro 16.516342,28, inerente al reato di malversazione di cui all’art. 316 bis cod. pen., a carico di G.R. e C.C., nonché della società B. s.p.a. Reato ipotizzato in relazione al contratto di finanziamento agevolato stipulato in data 8 marzo 2016 con il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) dalla B.  spa – essa pure inquisita per l’illecito amministrativo previsto e punito dall’art. 24, commi 1 e 2, d. lgs. n. 231/2001 – per non aver destinato la somma in precedenza individuata, parte del maggior anticipo ricevuto per oltre 21 milioni di euro, “alla realizzazione degli scopi di cui al Programma oggetto del contratto di finanziamento” di cui sopra.

I ricorrenti si duolevano:

-   dell’’inosservanza, da parte del GIP del principio della domanda cautelare: il PM aveva chiesto , secondo i ricorrenti, solo il sequestro in via diretta e specifica e non il sequestro per equivalente;  secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, presupposto indefettibile per l’applicazione della misura cautelare di cui trattasi,  è la sussistenza di “una specifica domanda del pubblico ministero”, tenuto conto della sicura diversità del sequestro diretto e per equivalente che, ancorché previsti in seno al medesimo articolo del codice di rito, nondimeno “sono due misure eterogenee, caratterizzate da fondamento normativo e ambito operativo del tutto differenti”;

-  vi era poi la violazione degli artt. 19 e 53 d. lgs. 231/2001: la vicenda per cui è procedimento “attiene ad una specifica ipotesi di responsabilità dell’ente per il reato di malversazione ai danni dello Stato”, in tal senso essendo ritenuto sintomatico sia l’espresso richiamo all’addebito elevato nei confronti della B. s.p.a. che compare nel decreto di sequestro preventivo, sia la circostanza che “la stessa formulazione dell’imputazione provvisoria declina l’aggravante del conseguimento di un profitto di rilevante entità esclusivamente in capo alla società … per il solo illecito amministrativo di cui all’art. 24 commi 1 e 2 del d. lgs 231/01”; il G.i.p., dopo aver disposto la ricerca del profitto del reato “in via diretta nell’ambito della sfera economico-patrimoniale della persona giuridica”, erroneamente aveva  disposto in subordine la misura ablativa “per equivalente sui beni nella disponibilità dell’amministratore della società” – s’intenda: di ciascun amministratore – anziché su quelli riferibili comunque alla società medesima, atteso che lo schema tratteggiato dalla sentenza Gubert delle Sezioni Unite di questa Corte, il cui percorso sarebbe stato riproposto dal confermato provvedimento genetico, con i connessi limiti di sequestrabilità, si attaglia specificamente ai reati tributari, non essendo pertanto invocabile nel caso di specie. Né – si prosegue ancora – sarebbe condivisibile il richiamo compiuto dal Tribunale torinese al “principio solidaristico che informa il concorso di persone nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente”: tanto poiché “l’ente non è mai autore del reato e non può essere considerato concorrente”, onde, “in presenza di un illecito commesso in vantaggio dell’ente o di cui, comunque, quest’ultimo abbia tratto un beneficio, si dovrebbe propendere per l’esclusiva responsabilità della persona giuridica o quanto meno della necessaria sottoposizione a sequestro preventivo, in via diretta e per equivalente, del suo patrimonio prima di procedere a rintracciare il profitto del reato per equivalente nel patrimonio degli amministratori dell’ente”, per i quali per di più – da ciò discendendo un ulteriore profilo d’illegittimità – non sussisterebbe qui alcun profitto aggredibile, in quanto conseguito esclusivamente dalla società, cui è stata contestata la ricordata aggravante della rilevante misura del medesimo.

Di contro secondo la Cassazione scatta il sequestro sui beni dell'amministratore dell'azienda sanzionata ai sensi della «231» se il patrimonio dell'ente è insufficiente.

Infatti “la confisca per equivalente del profitto di cui all'art. 19 del d.lgs n. 231/01 ha natura di sanzione principale e autonoma, senza che ricorra rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente tra la detta disposizione e le norme del codice penale che prevedono la stessa misura ablativa a carico delle persone fisiche responsabili del reato, fermo restando logicamente che l'espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l'entità complessiva del profitto.

La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.

In più, di fronte a un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente.

Più in particolare, perduta l'individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti, all'arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi.

Si segnala, per completezza, che la Procura generale in udienza, al termine della sua requisitoria, aveva chiesto alla Suprema Corte di accogliere il ricorso dei manager.

RITENUTO IN FATTO

  1. I difensori di fiducia di G.R. e C.C., al tempo dei fatti, nell’ordine, presidente del consiglio di amministrazione ed amministratore delegato di B. s.p.a., ciascuno a mezzo di un proprio e distinto atto, impugnano tempestivamente l’ordinanza indicata in epigrafe, con cui il Tribunale di Torino, adito ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen., ha confermato il decreto emesso dal locale G.i.p., avente ad oggetto il disposto sequestro preventivo a carico dei due prevenuti, oltre che della menzionata società, anche per equivalente, del profitto di euro 16.516342,28, inerente al reato di malversazione di cui all’art. 316 bis cod. pen. Reato ipotizzato in relazione al contratto di finanziamento agevolato stipulato in data 8 marzo 2016 con il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) dalla B. – essa pure inquisita per l’illecito amministrativo previsto e punito dall’art. 24, commi 1 e 2, d. lgs. n. 231/2001 – per non aver destinato la somma in precedenza individuata, parte del maggior anticipo ricevuto per oltre 21 milioni di euro, “alla realizzazione degli scopi di cui al Programma oggetto del contratto di finanziamento”di cui sopra.
  2. La totale sovrapponibilità dei due formalizzati ricorsi legittima l’esposizione unitaria delle tre doglianze, tutte per violazione di legge ai sensi dell’art. 606 lett. b) cod. proc. pen., attraverso cui essi si articolano.
  3. Il primo motivo denuncia l’inosservanza, in cui sarebbe incorso il G.i.p. nel far luogo all’adozione del provvedimento confermato con l’impugnata ordinanza, del principio della domanda cautelare.

Si assume in proposito che la lettura dell’istanza di sequestro, formulata dal pubblico ministero procedente in data 4 giugno 2019, darebbe conto di come il magistrato inquirente avesse chiesto il sequestro del rilevante ammontare già sopra indicato unicamente “in via diretta e specifica”, valorizzando al riguardo la “ampia nozione di profitto a cui la giurisprudenza è pervenuta”, al di fuori pertanto di alcuna puntuale richiesta di sequestro per equivalente, l’assenza della quale non sarebbe aggirabile attraverso l’apprezzamento “in via implicita e indiretta” del significato dell’istanza medesima, come invece opinato dal Tribunale circondariale della cautela: ciò alla luce dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in ordine alla necessità, appunto, quale presupposto indefettibile per l’applicazione della misura cautelare di cui trattasi, di “una specifica domanda del pubblico ministero”, tenuto conto della sicura diversità del sequestro diretto e per equivalente che, ancorché previsti in seno al medesimo articolo del codice di rito, nondimeno “sono due misure eterogenee, caratterizzate da fondamento normativo e ambito operativo del tutto differenti”.

  1. L’ulteriore violazione di legge dedotta ha ad oggetto gli artt. 19 e 53 d. lgs. 231/2001.

Rappresentano al riguardo i legali ricorrenti che la vicenda per cui è procedimento “attiene ad una specifica ipotesi di responsabilità dell’ente per il reato di malversazione ai danni dello Stato”, in tal senso essendo ritenuto sintomatico sia l’espresso richiamo all’addebito elevato nei confronti della B. s.p.a. che compare nel decreto di sequestro preventivo, sia la circostanza che “la stessa formulazione dell’imputazione provvisoria declina l’aggravante del conseguimento di un profitto di rilevante entità esclusivamente in capo alla società … per il solo illecito amministrativo di cui all’art. 24 commi 1 e 2 del d. lgs 231/01”.

Tanto premesso, si sostiene che il G.i.p., dopo aver disposto la ricerca del profitto del reato “in via diretta nell’ambito della sfera economico-patrimoniale della persona giuridica”, erroneamente avrebbe disposto in subordine la misura ablativa “per equivalente sui beni nella disponibilità dell’amministratore della società” – s’intenda: di ciascun amministratore – anziché su quelli riferibili comunque alla società medesima, atteso che lo schema tratteggiato dalla sentenza Gubert delle Sezioni Unite di questa Corte, il cui percorso sarebbe stato riproposto dal confermato provvedimento genetico, con i connessi limiti di sequestrabilità, si attaglia specificamente ai reati tributari, non essendo pertanto invocabile nel caso di specie.

Né – si prosegue ancora – sarebbe condivisibile il richiamo compiuto dal Tribunale torinese al “principio solidaristico che informa il concorso di persone nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente”: tanto poiché “l’ente non è mai autore del reato e non può essere considerato concorrente”, onde, “in presenza di un illecito commesso in vantaggio dell’ente o di cui, comunque, quest’ultimo abbia tratto un beneficio, si dovrebbe propendere per l’esclusiva responsabilità della persona giuridica o quanto meno della necessaria sottoposizione a sequestro preventivo, in via diretta e per equivalente, del suo patrimonio prima di procedere a rintracciare il profitto del reato per equivalente nel patrimonio degli amministratori dell’ente”, per i quali per di più – da ciò discendendo un ulteriore profilo d’illegittimità – non sussisterebbe qui alcun profitto aggredibile, in quanto conseguito esclusivamente dalla società, cui è stata contestata la ricordata aggravante della rilevante misura del medesimo.

  1. La terza censura investe la determinazione del profitto, quale compiuta dal G.i.p. del Tribunale del capoluogo piemontese.

Premesse sinteticamente le caratteristiche proprie del finanziamento richiesto ed ottenuto da B. s.p.a., osservano i difensori che la somma percepita dalla società in questione “non è un’erogazione a fondo perduto, ma un mutuo agevolato, connotato dall’applicazione di un tasso d’interesse più vantaggioso di quello di mercato”, con conseguente assunzione, in capo alla società medesima, dell’obbligo di “restituire a INVITALIA il capitale erogato e gli interessi nei modi e nei tempi previsti dal contratto”. Di qui la conclusione, alla luce della nozione di profitto delineata dalla giurisprudenza ed efficacemente definita come “effettivo incremento del patrimonio conseguito dall’agire illegale”:

– che, in considerazione della “peculiare struttura della fattispecie delittuosa per cui si procede”, come pure della liceità in sé del contratto di finanziamento stipulato da B. con INVITALIA, il fatto penalmente rilevante è qui “circoscritto alla successiva fase di esecuzione della prestazione corrispettiva posta a carico del privato”, ossia al solo momento di inadempienza “all’obbligo di imprimere a tale somma la destinazione pubblicistica concordata”, essendo perciò l’accrescimento della sfera patrimoniale dell’ente, derivante dalla percezione dell’erogazione pubblicistica, “evento cronologicamente antecedente ed eziologicamente svincolato dalla condotta illecita e pertanto non sussumibile acriticamente e in toto nella nozione di profitto quale incremento causato (quindi conseguente) dal fatto di reato”;

– che, in ragione dell’assoggettamento dell’importo finanziato “a vincolo di restituzione preesistente, immanente e indipendente rispetto alla commissione del reato, lo stesso non può essere tout court ricondotto alla nozione di profitto elaborata dalla giurisprudenza per i ‘reati in contratto’ “, categoria in cui rientra appunto la vicenda di cui trattasi, per via dell’assenza del necessario carattere della stabilità del connesso accrescimento economico, avente connotazione transitoria;

– da ultimo, che, “pur vertendosi pacificamente in un’ipotesi di reato in contratto, il Tribunale del riesame ha pretermesso totalmente qualunque valutazione in ordine ad esistenza ed entità dei costi vivi sostenuti dall’ente per dare esecuzione al contratto con INVITALIA”, essi pure incidenti sulla corretta determinazione del quantum suscettibile di essere sottoposto a sequestro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Nessuno degli illustrati motivi di ricorso – che ripropongono le medesime censure già sottoposte all’attenzione del Tribunale di Torino e dallo stesso disattese – si sottrae ad una previa e doverosa valutazione d’inammissibilità, sotto il profilo della manifesta infondatezza o della genericità della specifica doglianza formulata.
  2. Relativamente alla pretesa violazione del principio della domanda cautelare, l’ordinanza impugnata ne ha escluso la sussistenza rilevando come lo “espresso richiamo alla possibilità di un sequestro per equivalente”, contenuto nella motivazione della relativa istanza, nonché la stessa tipologia dei beni di cui alla richiesta d’imposizione del vincolo cautelare, contraddistinta dalla presenza di “immobili senza alcuna specificazione della condizione che dovesse trattarsi di beni oggetto di reimpiego del menzionato profitto”, costituiscano indici sintomatici della tranquillizzante conclusione che “il titolare del potere di iniziativa abbia effettivamente esteso le proprie richieste pure al sequestro preventivo per equivalente”.

A fronte di tanto, la difesa di entrambi i ricorrenti, al di là della segnalazione dell’ovvia diversità fra sequestro preventivo diretto e per equivalente, si è assestata sul requisito di “adeguata specificità” che deve connotare la richiesta cautelare reale del pubblico ministero, ma nulla ha detto sul significato della indicazione dei beni da sottoporre alla sollecitata misura, tanto più e soprattutto alla luce dell’esplicito riferimento al sequestro per equivalente, della cui effettiva presenza nel corpo della domanda cautelare i due ricorsi danno atto, pur sminuendone apoditticamente la significatività sulla base della definizione di “fugace e vano richiamo normativo” all’istituto in questione.

Discende da ciò la radicale inconsistenza, come pure l’indubbia genericità della doglianza, risoltasi in enunciazioni astratte senza un effettivo confronto con il congruo e lineare ragionamento sviluppato dall’ordinanza torinese, sulla base di non confutati dati fattuali.

  1. Venendo, quindi, alla dedotta violazione degli artt. 19 e 53 d. lgs. 231/2001, per non essere stata previamente verificata l’incapienza della B. rispetto all’effettuazione di sequestro per equivalente ai danni delle persone fisiche, l’impostazione difensiva – anche in questo caso – non ha alcun pregio.

Giova premettere, trattandosi della premessa in punto di diritto su cui è stato basato il presente motivo di censura, che l’ordinanza del Tribunale torinese – che è il provvedimento oggetto d’impugnazione e ben può integrare o anche sostituire la propria motivazione a quella adottata dal G.i.p. – non ha certo fatto proprie le argomentazioni della sentenza Gubert, emessa dalle Sezioni Unite in materia di sequestro preventivo nei reati tributari, giacché esplicita è la riproduzione di un ampio passaggio di affatto diversa pronuncia delle stesse Sezioni Unite – la n. 26654 del 27.06.2008, ric. Fisia Italimpianti – ove sono contenuti, tra l’altro e per quanto qui in particolare rileva, i seguenti enunciati formulati dall’Alto Consesso, cui anche la giurisprudenza successiva si è uniformata. Ossia che:

– “la confisca per equivalente del profitto di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01 ha natura di sanzione principale e autonoma”, senza che ricorra “rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente tra la detta disposizione e le norme del codice penale che prevedono la stessa misura ablativa a carico delle persone fisiche responsabili del reato, fermo restando logicamente che l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto“;

– “La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune“;

– “Il criterio d’imputazione del fatto all’ente è la commissione del reato ‘a vantaggio’ o ‘nell’interesse’ del medesimo ente da parte di determinate categorie di soggetti. V’è, quindi, una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato ‘fatto’ di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale“;

– “Di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Più in particolare, perduta l’individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti, all’arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi“.

Tanto premesso, è vero unicamente che l’esecuzione del sequestro di valore presuppone che non sia stato possibile far luogo previamente – così come recita l’art. 322 ter cod. pen. – alla confisca diretta di quanto costituisce il profitto o il prezzo del reato per cui si procede. Il che, nella presente fattispecie, trova puntuale riscontro: sul piano formale, nel tenore del dispositivo del provvedimento genetico, là dove si dispone, in prima battuta, “il sequestro preventivo in forma diretta e specifica del profitto del reato di cui al capo 1) della rubrica”, nella misura specificata, da eseguirsi sulle “somme di denaro sul conto riconducibile a B. s.p.a.”, prevedendosi solo in caso di incapienza “il sequestro per equivalente dei beni mobili e/o immobili rinvenuti nella disponibilità degli indagati … per un valore corrispondente al profitto indicato”; sul piano sostanziale, alla luce di quanto leggesi nell’ordinanza impugnata, avuto riguardo alla situazione di incapienza della società, definita “già apprezzabile ex ante”, come pure al riferimento alla “complessiva disamina dei verbali di esecuzione”, ancorché riguardati con peculiare attenzione al valore di quanto sottoposto a sequestro rispetto all’ammontare del profitto del reato, tenuto conto altresì della radicale genericità della censura, che nulla di concreto eccepisce onde dare reale sostanza alla critica avanzata, precipuamente insistendo su un inesistente ordine di priorità nella selezione dei soggetti sui cui beni eseguire il sequestro di valore.

  1. Per ciò che concerne la contestata determinazione della misura del profitto, va dato atto della complessità che è propria di tale problematica, ancor più delicata ove la questione, che involge la corretta definizione della nozione stessa di profitto, inerisca a forme di criminalità economica, connesse ad un’attività lecita d’impresa nella quale si insinuino condotte integranti reato, solo in tempi relativamente recenti postasi all’attenzione della giurisprudenza e della dottrina, che si è tradizionalmente soffermata sulla delimitazione del profitto assoggettabile a confisca in rapporto ai tipici reati contro il patrimonio, che si risolvono nella spoliazione della persona offesa.

Può inoltre senz’altro convenirsi con la difesa in ordine alla rilevanza della distinzione fra “reati contratto” e “reati in contratto”. Distinzione che, al fine della perimetrazione del concetto che qui interessa, è limpidamente tracciata dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 26554/2008, ove si legge, appunto, che, “nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d. ‘reato contratto’) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca. Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. ‘reato in contratto’), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente” (v. anche, in senso conforme e da ultimo, Sez. 6, sent. n. 9988 del 27.01.2015, Rv. 262794 e n. 55851 del 14.02.2017 n.m.).

4.1 Tanto premesso, è altresì vero che, nel caso di specie, il contratto di finanziamento agevolato sottoscritto da B. ed INVITALIA, sulla base dell’Accordo di Programma precedentemente raggiunto ed avente ad oggetto gli interventi concordati di riconversione e riqualificazione del polo industriale di Termini Imerese, è scevro da illiceità di sorta, giacché il momento di rilevanza penale del fatto si concretizza con la mancata destinazione del finanziamento ricevuto – qui corrispondente al 30% del totale ammesso – alle finalità per cui le relative somme erano state erogate. Dopodiché, tuttavia, non coglie manifestamente nel segno la difesa, là dove pretende di sostenere che, essendo il finanziamento (di necessità) entrato a far parte del patrimonio dell’ente in epoca antecedente alla consumazione del reato e trattandosi in ogni caso di un accrescimento patrimoniale transeunte, per via dell’obbligo di restituzione gravante sull’ente medesimo, maggiorato di un tasso d’interesse ancorché agevolato, di esso non si dovrebbe tener conto in funzione della determinazione del profitto assoggettabile a sequestro preventivo ed a successiva confisca.

Invero, se il profitto consiste nel “vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato”, inteso come “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” – come ancora una volta condivisibilmente leggesi nella parte motiva della citata sentenza delle Sezioni Unite – l’assunto difensivo è frutto di una evidente forzatura e di un interessato formalismo, giacché, in coincidenza con il concretarsi del fatto omissivo penalmente sanzionato, per ciò solo il denaro ricevuto con un preciso vincolo di destinazione va a costituire il non consentito accrescimento patrimoniale, senza che abbia rilievo in senso contrario l’obbligo di restituzione a carico dell’ente, peraltro d’ordinario destinato ad operare su un piano meramente cartaceo, a fronte dell’effettività del finanziamento incassato. D’altro canto, atteso che la ratio cui è pacificamente deputata la confisca per equivalente è quella di evitare che l’illecito penale consenta l’acquisizione di un qualsivoglia beneficio economico in capo al reo, a ciò correlandosi la tematica del ‘reato in contratto’ – volta a differenziare, nell’ambito del complessivo assetto negoziale, parti lecite, da ricollegarsi a prestazioni regolarmente eseguite dall’agente e perciò risoltesi in un utile per la controparte – appare innegabile che qui l’erogazione diviene fine a sé stessa, per essere stata frustrata la causale posta a base del concesso finanziamento, risolvendosi per ciò solo in un profitto, immediato e concreto, per il beneficiario del finanziamento medesimo ed in un correlativo danno per il soggetto erogante, a prescindere dal mero diritto di credito legato all’obbligo di restituzione futura (cfr., in termini, Sez. 6, sent. n. 12653 del 09.02.2016, Rv. 267205).

4.2 Quanto, infine, all’omessa considerazione “dei costi vivi sostenuti dall’ente per dare esecuzione al contratto con INVITALIA”, è di tutta evidenza come si sia al cospetto di una enunciazione totalmente generica, che si esaurisce nella sua mera enunciazione, essendosi i ricorrenti ben guardati dal sostanziarla attraverso l’indicazione di voci a tal fine rilevanti – che, come tali, dovrebbero essere inerenti alla sola parte del finanziamento che ha avuto regolare esecuzione – e nondimeno erroneamente non prese in considerazione dal provvedimento genetico e dall’ordinanza che ne ha confermato le statuizioni.

P.Q. M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.