Sicurezza sul lavoro

Mancata prova della conoscenza o conoscibilità delle prassi incaute: il datore di lavoro non risponde dell’infortunio del lavoratore

29 Dicembre 2020

In tema di reati colposi commessi con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, le prassi elusive delle prescrizioni diffuse sul luogo di lavoro e volte a tutelare la sicurezza sul lavoro non comportano responsabilità del datore di lavoro per culpa in vigilando dell’evento lesivo o letale occorso al lavoratore “qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale (ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore produttività), dalle quali sia scaturito l’evento».

(Cassazione Penale, Sez. IV, Sentenza 21 dicembre 2020 -ud. 2 dicembre 2020- n. 36778)

 

 Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione.

Il datore di lavoro della società X e la società X sono tratti a processo rispettivamente per il reato di omicidio colposo con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e per l'illecito amministrativo ex art. 25-septies comma 2, D.Lgs. 231/2001, reati commessi in danno del dipendente M.G.

Il dipendente, nel tentativo di far ripartire il macchinario per la cesoiatura – punzontatura di fogli metallici su cui stava operando e che si era inceppato, si introduceva in una zona pericolosa del macchinario attraverso un’apertura realizzata abusivamente anziché utilizzare l'apposito cancello protetto e dotato di fotocellula volta a bloccare il funzionamento del macchinario; alla ripartenza di quest’ultimo il dipendente veniva attinto mortalmente.

All’assoluzione di entrambi gli imputati in primo grado, segue la condanna in secondo grado.

Secondo la Corte d’appello, la responsabilità del datore di lavoro va ascritta all’omessa vigilanza in ordine sia alla realizzazione del cancelletto abusivo attraverso il quale il dipendente si era introdotto nell’area pericolosa del macchinario al fine di rimuovere il blocco, sia in ordine alla prassi non virtuosa in uso in azienda e seguita anche dal dipendente nell’occorso mortale.

La Corte di Cassazione annulla con rinvio l’impugnata sentenza, argomentando in particolare dell’assenza di prova in merito alla consapevolezza da parte del del datore di lavoro della presenza del cancelletto abusivo e della prassi di utilizzo di tale apertura in uso in azienda.

Secondo la Corte infatti “…nulla risulta accertato in ordine a chi avrebbe disposto o eseguito il varco. Nulla risulta accertato, inoltre, a proposito del fatto che vi fosse una prassi illegittima all'interno dello stabilimento, costituita dall'utilizzo più o meno ricorrente di tale accesso per entrare nell'area pericolosa ove il M.G. rimase ucciso. Risulta invece accertato che il cancelletto era realizzato con la stessa colorazione della recinzione di protezione (sebbene la Corte di merito sostenga, senza fornire elementi specifici, che esso fosse «comunque visibile», salvo poi definire "irrilevante" tale aspetto ai fini della responsabilità del G.C. in quanto datore di lavoro e, come tale, portatore di un debito di sicurezza di ordine generale nei confronti dei dipendenti)".

Ritiene la Corte che la responsabilità del datore di lavoro non possa quindi prescindere da una effettiva prova circa la conoscenza o conoscibilità del datore di lavoro delle prassi elusive delle prescrizioni impartite a tutela della sicurezza dei lavoratori e diffuse in azienda.

In particolare osserva che “..E', allora, del tutto pertinente il richiamo del ricorrente all'arresto giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale (ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore produttività), dalle quali sia scaturito l'evento (Sez. 4, n. 20833 del 15/05/2019, Stango, n.m.). Del resto in termini affatto analoghi si é espressa la giurisprudenza di legittimità in altro, recente arresto, in base al quale, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non é ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797). Nel caso di specie, si ripete, neppure é stata argomentata nella sentenza impugnata la prova dell'esistenza di una prassi in tal senso; ma, quand'anche tale prova fosse emersa in giudizio, sarebbe stato comunque necessario accertare ulteriormente - quanto meno in via logica, e non certo sulla sola base dell'astratta posizione di garanzia - che il datore di lavoro fosse, o dovesse necessariamente essere, a conoscenza della prassi incauta.…”.

Cassazione Penale, Sez. 4, 21 dicembre 2020, n. 36778

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: PAVICH GIUSEPPE Data Udienza: 03/12/2020

FATTO

1. La Corte d'appello di Bologna, in data 5 marzo 2019, ha riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Rimini, in data 17 novembre 2015, aveva assolto G.C. dal reato di omicidio colposo con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e la L.A. M. s.r.l. dall'illecito amministrativo ex art. 25-septies comma 2, D.Lgs. 231/2001, rispettivamente contestati come commessi in danno di M.G., deceduto in San Giovanni di Marignano il 15 gennaio 2008. Per l'effetto il G.C. veniva condannato alla pena di otto mesi di reclusione, con pena sospesa, e la L.A.M. s.r.l. veniva condannata al pagamento della sanzione amministrativa di euro 20.000,00.
Il G.C. risponde del reato nella sua qualità di datore di lavoro della vittima e legale rappresentante della L.A.M. s.r.l. da cui il M.G. dipendeva; l'infortunio mortale, secondo l'assunto accusatorio recepito nella sentenza d'appello, si sarebbe verificato all'interno dello stabilimento della società mentre il suddetto dipendente lavorava al quadro comandi di un macchinario per la cesoiatura - punzonatura di fogli metallici; a un tratto il meccanismo della macchina si inceppava e il M.G. si sarebbe introdotto nell'area pericolosa attraverso un cancelletto realizzato abusivamente anziché attraverso l'apposito varco protetto (munito di fotocellule che avrebbero bloccato il funzionamento della macchina); perciò, mentre egli tentava di sbloccare la macchina rimuovendo il materiale che l'aveva inceppata, il carrello di alimentazione ripartiva e travolgeva il M.G. , cagionandone la morte.
Secondo l'imputazione, formulata non solo a carico del G.C. ma anche nei confronti di altri soggetti facenti parte dell'organigramma della società, l'addebito era quello di aver disposto la realizzazione del cancelletto abusivo da cui il G.C. era entrato nella zona a rischio del macchinario, laddove, se egli si fosse introdotto in tale area attraverso l'apposito varco munito di fotocellule, il macchinario si sarebbe automaticamente bloccato, consentendo in sicurezza l'operazione di rimozione del materiale che lo aveva inceppato. Alla L.A.M. s.r.l. veniva addebitato il suddetto illecito amministrativo, correlato al reato attribuito al G.C. (soggetto apicale), perché commesso nell'interesse e a vantaggio della predetta società mediante l'omissione delle misure di prevenzione previste dalla legge allo scopo di eseguire i lavori in modo più rapido e meno costoso.
Mentre la sentenza di primo grado aveva escluso che fosse stato accertato che il M.G. aveva avuto accesso all'area pericolosa passando dal cancelletto realizzato abusivamente, la Corte di merito ha ritenuto acclarato che egli fosse entrato proprio da quest'ultimo varco, non facendo così scattare il dispositivo di sicurezza che avrebbe altrimenti bloccato il macchinario: a tale fine, sono stati risentiti in sede di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale il teste GA. e il perito ing. FI.i; e, a seguito di tale integrazione probatoria, i giudici d'appello hanno ritenuto che fosse da escludere il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, con conseguente certezza dell'accesso del M.G. all'area pericolosa attraverso il varco abusivo. Di ciò, secondo la sentenza impugnata, deve rispondere il G.C., nella sua qualità datoriale di garante generale della sicurezza dei lavoratori, avendo egli omesso di vigilare in ordine alla realizzazione del cancelletto e all'utilizzo dello stesso, la cui presenza - osserva la Corte di merito - era ampiamente nota all'interno della fabbrica; sussiste conseguentemente, sempre per la Corte distrettuale, anche l'illecito amministrativo contestato alla L.A.M. s.r.l..

2. Avverso la prefata sentenza ricorrono sia il G.C. che la L.A.M. s.r.l..

3. Il ricorso del G.C. é articolato in quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge processuale (con particolare riferimento agli artt. 521 e 522 cod.proc.pen.) in relazione al contenuto dell'imputazione mossa a carico del G.C., cui si addebita di avere disposto la realizzazione del cancelletto abusivo dal quale il M.G. sarebbe entrato nell'area a rischio. A fronte di tale imputazione - sottolinea il ricorrente riportando un ampio stralcio della sentenza impugnata - la sentenza con la quale é stata ribaltata la decisione assolutoria di primo grado imputa al G.C. di non avere esercitato la dovuta vigilanza sul corretto utilizzo del dispositivo di protezione (ossia l'accesso collegato alle fotocellule): ossia una condotta omissiva - riferita a un profilo di culpa in vigilando - diversa da quella oggetto di contestazione, ed anzi costituente un fatto nuovo. In aggiunta a ciò, nessuna delle fonti di prova orale (in particolare GA., sentito sia in primo che in secondo grado; M.C., sentito in primo grado; e lo stesso coimputato F., che pure era venuto a conoscenza della realizzazione del varco abusivo) ha riferito in ordine a qualsivoglia comunicazione rivolta al datore di lavoro o alla direzione aziendale circa la presenza del cancelletto, il quale peraltro era camuffato dalla presenza di bulloni verniciati (e quindi praticamente invisibile).
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione in riferimento all'esclusione della penale responsabilità dei coimputati R. F. (responsabile di produzione) e G.M. (responsabile di stabilimento) e all'esclusiva attribuzione di tale responsabilità al G.C.: richiamando stralci della sentenza impugnata e brani dell'audizione del F., il ricorrente evidenzia che costui, nella sua qualità, era da tempo venuto a conoscenza della presenza del cancelletto abusivo e non si era preoccupato di avvisare il G.C., né di impedire l'utilizzo di quel varco pericoloso; quanto al G.M., anch'egli era certamente a conoscenza dell'avvenuta realizzazione del cancelletto e, altrettanto certamente, non ne aveva reso edotto il G.C.. Quest'ultimo é stato invece ritenuto unico responsabile, in un'ottica molto simile a quella della responsabilità oggettiva per fatto altrui, sebbene non vi fossero elementi per affermare che egli fosse a conoscenza o potesse venire a conoscenza della presenza di un varco abusivamente realizzato, che consentiva di accedere all'area pericolosa del macchinario senza che venisse azionato il dispositivo di blocco.
3.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge processuale (con particolare riferimento all'art. 603, cod.proc.pen.). Sottolinea il deducente che la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, deliberata d'ufficio dalla Corte di merito (dopo avere rigettato la richiesta del P.G. ricorrente in tal senso), veniva espletata mediante nuova audizione del teste GA.; quanto all'audizione del perito R.G., pure disposta d'ufficio dal Collegio d'appello e divenuta impossibile per il decesso del R.G., inopinatamente la Corte di merito ne disponeva la sostituzione con l'audizione del consulente tecnico FI., escusso in sede di incidente probatorio - durante il quale i consulenti degli imputati erano rimasti assenti - in modo da recuperare un pieno contraddittorio, consentendo la partecipazione ed eventualmente la richiesta di audizione dei consulenti di parte. Il tema di prova veniva tuttavia delimitato dalla Corte territoriale al verificarsi o meno del blocco dell'organo lavoratore in sede di esperimento giudiziale, in occasione del transito dal varco collegato alle fotocellule, mentre venivano dichiarate inammissibili le domande relative, in particolare, alle caratteristiche e al funzionamento del sistema di barriere a fotocellule in relazione alla normativa comunitaria (c.d. Direttiva macchine). Oltre a ciò, a fronte della richiesta difensiva di ammettere l'audizione anche del consulente tecnico del G.C., ing. B., la Corte - che pure ne aveva anticipato l'ammissione - dichiarava inammissibile ogni ulteriore richiesta istruttoria (compresa l'audizione del C.T. B.).
3.4. Con il quarto e ultimo motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione, anche con travisamento della prova, in ordine alle finalità di realizzazione del varco abusivo, che la Corte di merito ha ritenuto essere finalizzato a consentire di evitare l'interruzione del ciclo produttivo a vantaggio della L.A.M. s.r.l., laddove non solo il C.T.D. ing. B., ma anche il perito R.G. avevano attribuito a tale varco tutt'altra funzione, ossia quella di evitare ai lavoratori un più faticoso trasporto degli utensili.

4. Il ricorso della L.A.M. s.r.l. consta di tre motivi.
4.1. Con il primo motivo la Società ricorrente denuncia violazione di legge processuale con riferimento al combinato disposto degli articoli 191 e 403 cod. proc.pen ., in relazione all'audizione - nel quadro della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale - dell'ing. FI., con conseguente recupero (come già evidenziato nel terzo motivo del ricorso G.C.) di una fonte di prova soggettivamente inutilizzabile perché precedentemente assunta con incidente probatorio al quale la persona giuridica non aveva partecipato per il tramite del proprio difensore . L'inutilizzabilità del contributo dell'ing. FI. in sede di incidente probatorio era stata peraltro dichiarata in primo grado con apposita ordinanza del Tribunale, non impugnata dal Pubblico ministero appellante e come tale da reputarsi definitiva. L'audizione dell'ing. FI. in appello si risolveva quindi nell'acquisizione di una prova dichiarativa il cui contributo, determinante ai fini della condanna dell'Ente, costituiva la fase terminale di altra prova che nei confronti della L.A.M. s.r.l. é certamente inutilizzabile.
4.2. Con il secondo motivo la Società deducente lamenta erronea applicazione della legge penale - segnatamente dell'art. 12, D.Lgs. 231/2001 - in relazione alla commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria, che doveva essere ridotta in misura compresa fra la metà e i due terzi in applicazione del terzo comma del citato art. 12: in aggiunta al risarcimento del danno (in relazione al quale la sanzione di € 30.000 é stata ridotta in ragione di un terzo ex art. 12, comma 2, lettera A) doveva infatti tenersi conto che la L.A.M. s.r.l., prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, aveva adottato e reso operativo un modello di organizzazione, gestione e controllo ex art. 8 del D.Lgs. 231/2001, idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
4.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione al "travisamento per omissione" delle testimonianze fornite dal perito ing. R.G. e dal consulente tecnico della difesa ing. B., in base alle quali la funzione del cancelletto abusivo non aveva nulla a che vedere con logiche di risparmio, ma era quella di consentire agli operai di caricare più agevolmente gli utensili: sulla questione il motivo di ricorso in esame si sovrappone sostanzialmente alle argomentazioni del quarto motivo del ricorso G.C..

DIRITTO

1. Il ricorso del G.C. é fondato sotto più profili.
In primo luogo, e con specifico riferimento al primo motivo di ricorso, deve ravvisarsi un'evidente discrasia fra l'oggetto specifico dell'imputazione - che poneva a carico di tutti gli imputati, ed anche del G.C., l'addebito di avere disposto la realizzazione del cancelletto abusivo - e la condotta criminosa ravvisata dalla Corte d'appello come colpevole da parte dell'odierno ricorrente, qualificabile come culpa in vigilando, per non avere il G.C. esercitato il dovuto controllo su quanto accadeva all'interno dello stabilimento e, dunque, anche sulla realizzazione del varco da cui sarebbe transitato il M.G..
Non si tratta unicamente di una condanna per colpa omissiva a fronte di un'imputazione per colpa commissiva, ma di una modalità affatto diversa e del tutto incompatibile con l'originaria qualificazione dell'oggetto dell'imputazione, per di più in seguito a una pronunzia di assoluzione in primo grado dall'addebito originario. In altre parole, a carico del G.C. si é ravvisato un fatto radicalmente diverso rispetto a quello contestato.
In giurisprudenza si é, invero, affermato - sia pure in una situazione in parte diversa rispetto a quella in esame - che, una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza; ma ciò a condizione che l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito (Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018, Siani, Rv. 273588). Nel caso di specie, il G.C. era chiamato a rispondere dell'evento non voluto per una condotta volontaria e, comunque, consapevole (quella di aver disposto che venisse realizzato il cancelletto) e, dopo un procedimento di primo grado in cui egli era stato assolto da tale addebito, é stato condannato in appello per una condotta omissiva ispirata a negligenza, ossia quella di non avere adempiuto al suo dovere di vigilanza. E' evidente l'eterogeneità dei due addebiti, con conseguente compromissione del diritto di difesa.
Tanto emerge soprattutto in relazione al thema probandum esplorato dalla Corte di merito - e, per vero, anche dal Tribunale in primo grado - ossia quello del funzionamento o del malfunzionamento dell'accesso collegato alle fotocellule (essendosi ritenuto in primo grado che tale punto non fosse stato chiarito, e in appello che il buon funzionamento del dispositivo di sicurezza ad esso collegato fosse la prova logica che il M.G. era entrato nell'area pericolosa dal varco vietato); non emerge in alcuno dei passaggi argomentativi della sentenza di condanna che l'istruttoria abbia riguardato la consapevolezza, da parte del G.C., della presenza del cancelletto abusivo.
Venendo a quest'ultimo profilo (trattato anch'esso nel primo motivo di lagnanza), é di tutta evidenza che l'accertamento della conoscenza, da parte del G.C., dell'avvenuta realizzazione del varco incriminato non é stato effettuato nel corso dell'istruzione dibattimentale e di quella suppletiva effettuata in appello a seguito di rinnovazione parziale dell'istruttoria.
La questione é liquidata dalla Corte felsinea con poche battute, laddove si afferma - senza il benché minimo riferimento al materiale probatorio raccolto - che non solo era pacifica la realizzazione «da diverso tempo» del varco incriminato, ma anche «che la presenza di tale apertura era ampiamente nota all'interno della fabbrica». Null'altro si dice a proposito di tale cruciale aspetto, che - se sviluppato - avrebbe permesso al G.C. di difendersi anche da tale (diverso) addebito, ossia quello di essere a conoscenza del cancelletto realizzato abusivamente; né si fa alcun riferimento alle fonti di prova in base alle quali tale diffusa conoscenza (peraltro non riferita specificamente all'odierno ricorrente) sarebbe stata accertata processualmente. Nulla risulta accertato in ordine a chi avrebbe disposto o eseguito il varco. Nulla risulta accertato, inoltre, a proposito del fatto che vi fosse una prassi illegittima all'interno dello stabilimento, costituita dall'utilizzo più o meno ricorrente di tale accesso per entrare nell'area pericolosa ove il M.G. rimase ucciso. Risulta invece accertato che il cancelletto era realizzato con la stessa colorazione della recinzione di protezione (sebbene la Corte di merito sostenga, senza fornire elementi specifici, che esso fosse «comunque visibile», salvo poi definire "irrilevante" tale aspetto ai fini della responsabilità del G.C. in quanto datore di lavoro e, come tale, portatore di un debito di sicurezza di ordine generale nei confronti dei dipendenti).
E', allora, del tutto pertinente il richiamo del ricorrente all'arresto giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale (ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore produttività), dalle quali sia scaturito l'evento (Sez. 4, n. 20833 del 15/05/2019, Stango, n.m.). Del resto in termini affatto analoghi si é espressa la giurisprudenza di legittimità in altro, recente arresto, in base al quale, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non é ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797).
Nel caso di specie, si ripete, neppure é stata argomentata nella sentenza impugnata la prova dell'esistenza di una prassi in tal senso; ma, quand'anche tale prova fosse emersa in giudizio, sarebbe stato comunque necessario accertare ulteriormente - quanto meno in via logica, e non certo sulla sola base dell'astratta posizione di garanzia - che il datore di lavoro fosse, o dovesse necessariamente essere, a conoscenza della prassi incauta.
Invero, anche sul piano dell'utilità del cancelletto abusivo in chiave di maggiore produttività (tema, questo, affrontato nel quarto motivo di ricorso), la motivazione della sentenza impugnata si presenta del tutto carente, limitandosi alla deduzione - pervero affatto assertiva e sprovvista di uno specifico sostegno logico e probatorio - che il cancelletto serviva a impedire l'interruzione del ciclo produttivo. A parte quanto si dirà fra un attimo a proposito della mancata audizione del consulente della difesa ing. B. da parte della Corte di merito nel corso del giudizio d'appello, deve constatarsi che non solo costui, ma anche il perito d'ufficio R.G. aveva escluso esplicitamente che lo scopo del cancelletto sarebbe stato quello di mantenere la continuità del ciclo produttivo ed aveva affermato che esso serviva a far «risparmiare fatica ai lavoratori».
Infine, é fondato anche il terzo motivo di lagnanza. In luogo dell'audizione del perito R.G., deceduto nelle more del giudizio, la Corte di merito aveva disposto l'audizione del perito FI. (peraltro unicamente sugli esiti dell'esperimento giudiziale relativo al funzionamento del varco collegato alle fotocellule, e non anche sugli ulteriori temi di prova richiesti dalla difesa); la deposizione del perito, diversamente da quanto pure la Corte di merito aveva anticipato, non é stata però seguita da quella del consulente della difesa ing. B., in quanto "inammissibile" secondo la Corte di merito, pervenuta poi al convincimento di penale responsabilità del G.C. Più in generale, poi, la parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che ha preceduto il ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado non ha avuto in alcun modo ad oggetto il tema della conoscenza o della conoscibilità, da parte del G.C., della realizzazione del cancelletto, non essendo state riesaminate fonti di prova orale decisive a tal fine.
In proposito va ricordato che sussiste l'obbligo, per il giudice d'appello che intenda pervenire a reformatio in peius, di rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487); merita pure di essere richiamato il principio in base al quale, in tema di rinnovazione dell'istruttoria, il giudice di appello che fondi sulle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico, nel corso del dibattimento di primo grado, la riforma della sentenza di assoluzione, ha l'obbligo di procedere alla loro rinnovazione, anche nel caso in cui in secondo grado sia stata disposta nuova perizia, rendendo quest'ultima ancora più pregnante l'esigenza di procedere al confronto dialettico tra le tesi sostenute dai periti (Sez. 4, n. 31865 del 10/04/2019, Provincia di Massa Carrara, Rv. 276795); nel caso di specie, non essendo stata possibile una nuova audizione del perito R.G. ma essendosi disposta nuova audizione del perito sentito in sede di incidente probatorio (che era pervenuto a conclusioni diverse, oltretutto su un tema estremamente ristretto e specifico), proprio la necessità di un maggiore confronto dialettico tra tesi opposte, in una prospettiva di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado, avrebbe imposto di procedere a nuovo esame del consulente tecnico della difesa.

2. Le ragioni suesposte risultano assorbenti, sul piano logico, anche dei motivi posti a base del ricorso della L.A.M. s.r.l., la cui posizione ai fini dell'attribuzione di responsabilità quanto al contestato illecito amministrativo risulta strettamente dipendente dall'accertamento dell'illecito penale e della sua attribuzione al soggetto apicale (il G.C.).

3. In base alle considerazioni che precedono, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
Così deciso in Roma il 3 dicembre 2020.