Sicurezza sul lavoro

Ruolo di membro del CDA, posizione di garanzia e delega di funzioni per la sicurezza sul lavoro

2 Marzo 2020

Grava su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento - per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - risulti  indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.( Cassazione Penale, Sez. 4, 26 febbraio 2020, n. 7564 )

La sentenza in commento annulla parzialmente la sentenza della Corte di Appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto del 23 giugno 2017, depositata in data 19 settembre 2017, limitatamente alle posizioni di R.F.A. (membro del consiglio di amministrazione dal 15 maggio 1995) e di C.L. (direttore di stabilimento dal Io dicembre 1996), nei cui confronti ha proposto ricorso per cassazione la Procura generale presso la Corte di appello di Lecce. Più precisamente la Corte di appello ha assolto R.F.A. (vice-presidente e consigliere delegato del consiglio di amministrazione della società RIPL s.r.l., poi, Riva s.p.a., Ilva Laminati Piani s.p.a. e Ilva s.p.a., che ha gestito lo stabilimento siderurgico di Taranto dal 15 maggio 1995) da tutti i reati contestati per non aver commesso il fatto, eliminando le statuizioni civili a suo carico; inoltre, ha assolto C.L. (direttore di stabilimento dal Io dicembre 1996) dall'omicidio colposo in danno di A.C. e A.V., perché il fatto non sussiste, ed ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per il reato di cui all'art. 437, primo comma, cod.pen. per intervenuta prescrizione già alla data della sentenza di primo grado, conseguentemente eliminando tutte le statuizioni civili a suo carico.

La Corte di appello ha escluso la responsabilità di RFA non essendo egli titolare di una posizione di garanzia in quanto la delega conferitagli, risultante dal verbale del consiglio di amministrazione del 29 gennaio 1996, non investiva la materia dell'igiene e della sicurezza del lavoro, sicché egli non aveva alcun potere di gestione e di spesa in ordine alla prevenzione degli infortuni, restando irrilevante ogni discorso sull'effetto non liberatorio della delega rispetto a tale imputato, in quanto soggetto delegato e non delegante. Al contrario, il giudice di primo grado, aveva affermato la posizione di garanzia di R.F.A. sia in base alla premessa che gli obblighi di prevenzione degli infortuni sul lavoro gravano indistintamente su tutti i membri del consiglio di amministrazione, anche in presenza di una delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro, atteso che vi è una residua responsabilità, non suscettibile di delega, collegata al dovere di vigilare sulla complessiva politica di sicurezza aziendale, e che, peraltro, nessuna delega può escludere la responsabilità del delegante laddove l'infortunio sia la conseguenza non di un'occasionale disfunzione, ma piuttosto di difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, sia in base al verbale del consiglio di amministrazione del 14 novembre 2002, in cui proprio R.F.A. è stato individuato quale soggetto deputato ad attuare gli investimenti in materia di sicurezza ed igiene.

La Procura Generale presso la Corte di appello di Lecce, relativamente alla posizione di RFA ha proposto ricorso per la violazione di legge, la mancanza di motivazione ed il travisamento della prova, in quanto la sua posizione di garanzia è stata esclusa in base all'oggetto della delega conferitagli, come risultante dal verbale di riunione del 29 gennaio 1996, senza tener conto del suo ruolo di vice presidente e di componente del consiglio di amministrazione, su cui il giudice di primo grado aveva fondato la sua responsabilità, attesa la natura non meramente occasionale degli incidenti, causalmente collegati ai difetti strutturali dell'azienda e del processo produttivo, frutto di precise scelte dei vertici aziendali, e dell'assenza di una specifica delega in materia di igiene e sicurezza del lavoro, idonea ad esonerare da responsabilità il datore di lavoro.

La Suprema Corte  ha ritenuto che la sentenza di appello fosse viziata:

- per erronea applicazione della legge penale, perché gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia – ed RFA era stato vice-presidente e consigliere delegato del consiglio di amministrazione della società RIPL s.r.l., poi, Riva s.p.a., Ilva Laminati Piani s.p.a. e Ilva s.p.a., che ha gestito lo stabilimento siderurgico di Taranto dal 15 maggio 1995 - ; nel caso di specie la posizione di garanzia di tale imputato era stata erroneamente  esclusa in considerazione dell'asserita assenza di una delega nei suoi confronti, avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, prescindendo dall'orientamento risalente e consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (da ultimo, Sez. 4, n. 8118 del 01/02/2017 ud. - dep. 20/02/2017, Rv. 269133 - 01). Difatti, in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda e, cioè, con i vertici dell'azienda stessa, ovvero col presidente del consiglio di amministrazione o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni (Sez. 3,n. 12370 del 09/03/2005, Rv. 231076), con la conseguenza che "gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione" (Sez. 4, n. 6280 del 11/12/2007, Rv. 238958).

- per erronea applicazione della legge penale, in quanto la delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono, comunque, essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega - così, in una fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo, riguardando beni realizzati anche con amianto, aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002 ud. - dep. 14/01/2003, Rv. 226999 - 01, che ha ritenuto che, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione e per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento - per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.

 

FATTO  

1. La sentenza impugnata attiene alle imputazioni elevate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto nei confronti di trenta persone succedutesi nel ruolo di datore di lavoro o di dirigente, nell'ambito della società proprietaria dello stabilimento siderurgico denominato Ilva, a Taranto - imputazioni formulate nell'ambito di due distinti procedimenti (quello r.g.n.r. 2822/99, concernente la morte o la malattia professionale di sedici lavoratori, causalmente collegate all'esposizione a una particolare miscela di elementi dannosi per la salute dei lavoratori, costituita da acidi tossici, apirolo, diossina, amianto, polveri sottili e sottilissime, carbone, silice, ferro, IPA, metalli pesanti, solidi e inerti, PCB, mercurio, anidride carbonica e fibrosanti; quello r.g.n.r. 9968/09, concernente i reati di cui agli artt. 437, primo e secondo comma, e 449 cod. pen., in relazione agli artt. 434 cod. pen. e 2087 c.c., nonché 589, secondo comma, cod.pen., per aver omesso di adottare cautele dirette ad evitare l’esposizione dei lavoratori al pericolo di inalazione di fibre di amianto, in tal modo cagionando il disastro costituito dall'insorgenza di malattie tumorali in ulteriori quindici lavoratori, conseguentemente deceduti.
All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Taranto, dichiarata l'estinzione dei reati per morte del reo nei confronti di R.E. e T.S., ha condannato 27 imputati (membri del consiglio di amministrazione, direttori di stabilimento, titolari di deleghe in materia di sicurezza del lavoro), giudicati responsabili di omicidio colposo plurimo e del reato dì cui all'art. 437 cod. pen., aggravato dal disastro colposo, alla pena detentiva e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili (più precisamente Omissis), pur escludendo per tutti la sussistenza delle ascritte lesioni personali in danno dei lavoratori Omissis e degli omicidi in danno di Omissis, dichiarando l'estinzione per intervenuta prescrizione dell'omìcidio in danno di P.V. ed assolvendo taluni imputati da specìfici omicidi per non aver commesso il fatto. In estrema sintesi, il Tribunale ha ritenuto che "la irrefutabile esposizione ad amianto per anni connessa al tipo di mansioni espletate dai lavoratori; la spiegata e dimostrata validità della teoria della dose dipendenza che assegna rilevanza a tutte le esposizioni ad amianto ripetute nel tempo ai fini dell'insorgenza del mesotelioma, del suo sviluppo e, quindi, anche della minore durata in vita della vittima; la conferma delle conclusioni della detta teoria anche quando applicata ai singoli decessi, come più volte chiarito dai CC.TT . del P.M.; l'esclusione di fattori eziologici capaci di determinare da soli l'insorgenza della neoplasia in guisa tale da interrompere il nesso di causalità "rendessero" soddisfatte le condizioni che, in materia di credibilità logico razionale, sono state indicate dalle S.U. con la sentenza Franzese a proposito dell'utilizzo di regole statistiche in materia di nesso di causalità per ipotesi di responsabilità omissiva impropria".
La Corte di appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto ha parzialmente riformato tale pronuncia, confermando la condanna dei soli S., A. e N., peraltro limitatamente ad alcuni dei decessi originariamente loro attribuiti, mentre con formule diverse ha assolto gli altri imputati da tutti i reati rispettivamente loro ascritti (in particolare per B.G. e M.G. per morte del reo) e dichiarato non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati in ordine al reato di cui all'alt. 437 cod. pen. perché estinto per prescrizione.
Proposto ricorso per cassazione dalla parte pubblica e da alcuni imputati, all'udienza del 13 giugno 2019, la Suprema Corte ha disposto la separazione del procedimento a carico di R.F.A. e C.L. per irregolarità delle comunicazioni, mentre ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di S. G. per intervenuta estinzione dei reati per morte del reo e con rinvio nei confronti di A. A. e N. S., limitatamente agli omicidi in danno di OMISSIS, loro rispettivamente ascritti, rigettando nel resto i ricorsi di tali imputati e quello del Procuratore generale nei loro confronti.
2. Il presente giudizio ha, pertanto, ad oggetto la sentenza della Corte di Appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto del 23 giugno 2017, depositata in data 19 settembre 2017, limitatamente alle posizioni di R.F.A. (membro del consiglio di amministrazione dal 15 maggio 1995) e di C.L. (direttore di stabilimento dal Io dicembre 1996), nei cui confronti ha proposto ricorso per cassazione la Procura generale presso la Corte di appello di Lecce.

Più precisamente la Corte di appello ha assolto R.F.A. (vice-presidente e consigliere delegato del consiglio di amministrazione della società RIPL s.r.l., poi, Riva s.p.a., Ilva Laminati Piani s.p.a. e Ilva s.p.a., che ha gestito lo stabilimento siderurgico di Taranto dal 15 maggio 1995) da tutti i reati contestati per non aver commesso il fatto, eliminando le statuizioni civili a suo carico; inoltre, ha assolto C.L. (direttore di stabilimento dal Io dicembre 1996) dall'omicidio colposo in danno di A.C. e A.V., perché il fatto non sussiste, ed ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per il reato di cui all'art. 437, primo comma, cod.pen. per intervenuta prescrizione già alla data della sentenza di primo grado, conseguentemente eliminando tutte le statuizioni civili a suo carico.
Per quanto concerne R.F.A. il giudice di appello, alle p. 159 e 160, ha escluso la sua posizione di garanzia osservando che la delega conferitagli, risultante dal verbale del consiglio di amministrazione del 29 gennaio 1996, non investiva la materia dell'igiene e della sicurezza del lavoro, sicché egli non aveva alcun poter di gestione e di spesa in ordine alla prevenzione degli infortuni, restando irrilevante ogni discorso sull'effetto non liberatorio della delega rispetto a tale imputato, in quanto soggetto delegato e non delegante. Al contrario, il giudice di primo grado, a p. 186ss. ed in particolare a p. 189, aveva affermato la posizione di garanzia di R.F.A. sia in base alla premessa che gli obblighi di prevenzione degli infortuni sul lavoro gravano indistintamente su tutti i membri del consiglio di amministrazione, anche in presenza di una delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro, atteso che vi è una residua responsabilità, non suscettibile di delega, collegata al dovere di vigilare sulla complessiva politica di sicurezza aziendale, e che, peraltro, nessuna delega può escludere la responsabilità del delegante laddove l'infortunio sia la conseguenza non di un'occasionale disfunzione, ma piuttosto di difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, sia in base al verbale del consiglio di amministrazione del 14 novembre 2002, in cui proprio R.F.A. è stato individuato quale soggetto deputato ad attuare gli investimenti in materia di sicurezza ed igiene.
Per quanto concerne C.L., la Corte di appello è pervenuta all'assoluzione per il reato di cui al capo G (omicidio colposo di A.C. ed A.V.), escludendo, in base alla perizia espletata in secondo grado, che la causa del decesso di tali lavoratori fosse il mesotelioma (v. p. 164 ss. ed in particolare p. 190), ed alla declaratoria di prescrizione per il reato di cui al capo A (individuato dal secondo giudice, previa esclusione delle circostanze aggravanti di cui al secondo comma, nel delitto di cui all'art. 437, primo comma, cod.pen., con ciò superando la diversa impostazione del Tribunale, che aveva ritenuto realizzate sia l'aggravante del disastro sia quella degli infortuni), già alla data della sentenza di primo grado, con conseguente revoca delle statuzioni civili, facendo decorrere il termine di legge, cui si aggiungono 38 giorni di sospensione, dal 1^ novembre 2000 (data della cessazione dell'attività lavorativa di A.C.).
3. La Procura Generale presso la Corte di appello di Lecce, nel ricorso per cassazione proposto relativamente a tali posizioni, ha dedotto nei confronti di C.L. l'inosservanza di legge e la mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla dichiarata estinzione del reato di rimozione/omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro, rilevando che, a p. 336-339 della sentenza, dopo essersi individuato per tutti gli imputati il dies a quo della prescrizione non oltre la data della cessazione della carica e, cioè, della posizione di garanzia, si è inspiegabilmente adottato un criterio diverso nei confronti dell'imputato de quo, facendosi riferimento alla cessazione della vita lavorativa dei dipendenti A.C. ed A.V., senza tener conto della pronuncia di assoluzione, perché il fatto non sussiste, per i loro omicidi e dell'irrilevanza di tali vicende, ai fini della consumazione dell'ipotesi semplice di cui all'art. 437, primo comma, cod.pen., oggetto di contestazione; nei confronti di R.F.A., la violazione di legge, la mancanza di motivazione ed il travisamento della prova, in quanto la sua posizione di garanzia è stata esclusa in base all'oggetto della delega conferitagli, come risultante dal verbale di riunione del 29 gennaio 1996, senza tener conto del suo ruolo di vice presidente e di componente del consiglio di amministrazione, su cui il giudice di primo grado aveva fondato la sua responsabilità, attesa la natura non meramente occasionale degli incidenti, causalmente collegati ai difetti strutturali dell'azienda e del processo produttivo, frutto di precise scelte dei vertici aziendali, e dell'assenza di una specifica delega in materia di igiene e sicurezza del lavoro, idonea ad esonerare da responsabilità il datore di lavoro.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso proposto dalla parte pubblica nei confronti di C.L. è fondato e merita accoglimento.
2. La sentenza impugnata è, difatti, viziata per erronea applicazione della legge penale, atteso che, pur riconducendo il reato contestato ed accertato, di cui al capo A), nei confronti dell'imputato C.L., nell'ambito dell'art. 437, primo comma, cod.pen., sub specie di omessa collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, prescinde dalla natura permanente di tale delitto, nella sua forma omissiva, ai fini dell'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione. In proposito deve sottolinearsi che il reato di cui all'art. 437, primo comma, cod. pen., ove la condotta consista nell'omissione (e non nella rimozione) di cautele contro infortuni sul lavoro, ha natura permanente, e la permanenza cessa quando il dispositivo omesso sia collocato o non sia più utilmente collocabile ovvero, trattandosi di reato proprio, quando la posizione di garanzia venga dismessa (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 ud.- dep. 16/04/2018, Rv. 273098 - 01). Da tale premessa deriva che solo da tali momenti può iniziare a decorrere il termine di prescrizione.
In proposito deve sottolinearsi che il principio di diritto affermato da questa Corte, Sez. 4, n. 45935 del 13/06/2019 cc. - 12/11/2019 dep., nella sentenza con cui il giudizio è stato definito rispetto agli altri co-imputati, con riferimento all'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, non risulta pertinente, in quanto relativo alla diversa fattispecie di cui all'art. 437, secondo comma, cod.pen.
La motivazione della sentenza risulta, inoltre, lacunosa e contraddittoria nella parte in cui individua quale dies a quo del termine di prescrizione nei confronti di C.L.., la data della cessazione dell'attività lavorativa di A.C. (1° novembre 2000), pur avendo escluso che tale lavoratore sia deceduto in conseguenza del mesotelioma e, pertanto, della condotta dell'imputato, senza spiegare in alcun modo il collegamento di tale evento al reato in esame ed alla sua prescrizione. Sul punto va evidenziato che nelle premesse svolte a p. 336 la barriera temporale della cessazione dell'attività lavorativa dei dipendenti è limitata alle sole vittime che si sono ammalate in conseguenza dell'omessa predisposizione delle cautele ed alla sola fattispecie aggravata di cui all'art. 437, secondo comma, cod.proc.pen., fattispecie che è esclusa dalla stessa sentenza impugnata a p. 339 relativamente a C.L. (profilo su cui non vi è stata alcuna impugnazione).
3. E' necessario, comunque, verificare se, nonostante l'annullamento della sentenza impugnata, sia maturata (ed, in caso positivo, in quale data) la prescrizione, ai fini di un'eventuale pronuncia ex art. 129 cod.proc.pen., ferma restando l'inapplicabilità del secondo comma, come già evidenziato dal giudice di appello.
In ordine al termine di prescrizione dei reati permamenti, occorre premettere che, nell’ipotesi di condotta protrattasi unitariamente sotto l’imperio di due diverse leggi, va applicata solo la disposizione vigente alla data della cessazione della permanenza (v., per tutte, Sez. 3, Sentenza n. 43597 del 09/09/2015 ud. - dep. 29/10/2015, Rv. 265261 - 01, secondo cui, in tema di tutela penale del paesaggio, il reato previsto dall’art. 181, comma 1- bis, dei d.lgs. n. 42 del 2004 ha natura permanente e si consuma con la definitiva ultimazione dei lavori ovvero con l’interruzione della condotta per qualsiasi motivo, con la conseguenza che nell’ipotesi di condotta protrattasi unitariamente sotto l’imperio di due diverse leggi, l’ultima delle quali abbia aggravato il regime sanzionatorio del fatto, elevandolo da contravvenzione a delitto, va applicata solo la disposizione vigente alla data della cessazione della permanenza e, per l’effetto, il più lungo termine di prescrizione).
Per quanto concerne il dies a quo del relativo termine, Sez. 3, n. 364 del 27/01/1998 cc. - dep. 05/03/1998, Rv. 210283 - 01 ha ritenuto che il giudice non può presumere che un reato permanente, che è stato contestato come accertato in una data determinata, abbia esaurito la sua permanenza in tale momento e non può, pertanto, dichiararlo estinto per prescrizione nella considerazione che il decorso della prescrizione sia iniziato dalla data dell’accertamento, se prima non ha verificato che la permanenza è concretamente cessata in questa data per gli effetti di cui all’art. 158 c.p. in relazione all'art. 157 c.p. (v. anche, con riferimento alla violazione degli obblighi di assistenza familiare, Sez. 6, n. 2843 del 26/11/2003 ud. - dep. 27/01/2004, Rv. 228330 - 01, secondo cui, il termine di prescrizione, nel caso di reato permanente la cui condotta costitutiva non risulti cessata in precedenza, decorre dalla data della sentenza di condanna in primo grado).
Si è, inoltre, affermato che nel caso in cui sia contestato un reato permanente con l'indicazione della sola epoca dell'accertamento, si deve distinguere, ai fini del termine iniziale della prescrizione, i reati necessariamente permanenti da quelli solo eventualmente permanenti: per questi ultimi, qualora risulti dalla sentenza o dagli atti processuali ovvero da prove logiche la protrazione della permanenza oltre la data della contestazione riferita al momento dell'accertamento, sarà possibile, senza necessità di contestazioni suppletive, ritenere il tempus commissi delieti fino al momento della pronuncia di primo grado o a quello minore rilevabile ex actis, mentre ove nulla risulti varrà la data della contestazione; viceversa, nel caso di reato necessariamente permanente, l'epoca di commissione va fissata al momento della decisione di primo grado (così Sez. 3, n. 12913 del 13/10/1998 ud. - dep. 11/12/1998, Rv. 213341 - 01).
Non può, tuttavia, prescindersi da quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel caso in cui l’imputazione relativa ad un reato permanente indichi il tempus commissi delicti con "formula chiusa", e cioè con la precisazione della data di cessazione della condotta illecita, il termine di prescrizione decorre dalla data indicata nell'imputazione e non dalla data di emissione della sentenza di primo grado, potendo le eventuali condotte successive, incidenti sul mantenimento della situazione antigiuridica, essere contestate in altro procedimento (Sez. 2, n. 55164 del 18/09/2018 ud. - dep. 10/12/2018, Rv. 274298 - 01). Difatti, in tema di decorrenza del termine di prescrizione nei reati permanenti, assume rilievo decisivo la contestazione del fatto elevata da parte del pubblico ministero procedente a carico dell'imputato, per cui, ove dalla contestazione si ricavi che il reato permanente sia ancora in corso, allora il termine di prescrizione deve essere protratto sino alla data di emissione della sentenza di primo grado od al differente momento di accertamento della cessazione della permanenza, mentre, ove, invece, il pubblico ministero abbia proceduto ad una precisa delimitazione della condotta punibile nell'elevare l'imputazione, sarà dalla precisa data indicata che il termine di decorrenza della prescrizione andrà calcolato e l'eventuale prosecuzione della condotta delittuosa potrà formare oggetto di nuova e separata contestazione in altro procedimento ovvero nelle forme della modifica dell'imputazione nello stesso procedimento ove ne sussistano i presupposti e le condizioni. In particolare si è affermato che nel caso di reato permanente, la delimitazione del fatto contestato sotto il profilo della sua durata nel tempo dipende dalle indicazioni contenute nel capo d'accusa, nel senso che l'individuazione della sola data di inizio o di accertamento della condotta comporta la pertinenza dell'addebito al tempo intercorrente fino alla sentenza di primo grado, mentre l'indicazione di una data finale (qual è anche l'espressione "fino ad oggi") implica che la contestazione comprenda la sola porzione del fatto antecedente al rinvio a giudizio (Sez. 6, n. 49525 del 24/09/2003, Rv. 229504). Si è ancora ribadito che la contestazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio con la formula "ad oggi" o "tutt'ora" delimita la durata della contestazione e, quindi, la cessazione della permanenza alla data di formulazione dell'accusa (Sez. 6, n. 7605 del 16/12/2016, Rv. 269053). Il tema della contestazione del reato permanente risulta intimamente connesso con l'eccezione di ne bis in idem processuale poiché solo ove il fatto giudicato comprenda tutte le condotte accertate sino alla data della sentenza di primo grado risulta precluso un nuovo giudizio per tale periodo temporale; ove, invece, la contestazione contenga una precisa data finale non è precluso un nuovo giudizio sulle condotte successive a tale giorno.
4. Da tali premesse, attesa la natura di reato permanente dell'omissione dolosa di impianti, apparecchi, segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, discende che il termine di prescrizione deve essere calcolato con riferimento alla disciplina vigente nel periodo in cui è collocato l'ultimo segmento temporale della condotta contestata (dal 1975 al 1° gennaio 2010) ed è, quindi, pari, come già precisato nella sentenza impugnata, a anni 7 e mesi 6, a cui vanno aggiunti giorni 38 di sospensione.
Al fine dell'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, occorre, in primo luogo, stabilire se l'imputazione sia stata formulata in modo chiuso, con una precisa delimitazione temporale, a cui attenersi nel calcolo della prescrizione (come è avvenuto nel caso di specie, in cui nella sentenza di primo grado, relativamente al capo A, si legge "in Taranto dal 1975 al I^ gennaio 2010"), oppure in modo aperto, investendo in tal caso il giudizio la condotta sino alla decisione di primo grado, data da cui inizia a decorrere la prescrizione, ferma la necessità di verificare se in epoca anteriore a tali momenti sia esaurita la condotta antigiuridica -ad esempio, in conseguenza della cessazione della posizione di garanzia, a cui è connesso l'obbligo giuridico di realizzare le cautele imposte dall'art. 437 cod.pen.
Tuttavia, dalle sentenze di merito non si evince né la collocazione di impianti, apparecchi, segnali di cui all'art. 437 cod.pen. né la cessazione dalla carica di C.L. in epoca anteriore alla data finale della contestazione di cui al capo A, indicata nella sentenza di primo grado nel Io gennaio 2010. Invero, dalle stesse deduzioni difensive di C.L. la data della sua cessazione dalla carica si colloca nel luglio 2012 e, quindi, in epoca successiva al limite temporale posto nel capo di imputazione formulato.
Il dies a quo del termine di prescrizione coincide, quindi, con la data finale della contestazione (Io gennaio 2010), sicché la prescrizione risulta maturata, tenuto conto di 38 giorni di sospensione, in data 8 agosto 2017, successivamente alla sentenza di primo grado, le cui statuzioni civili collegate all'art. 437 cod.pen. rivivono, in conseguenza dell'annullamento della sentenza di appello in ordine alla dichiarazione di prescrizione. Nella quantificazione del danno il giudice civile dovrà, però, tenere conto della riqualificazione del reato da parte del giudice di appello ai sensi dell'art. 437, primo comma, cod.pen.
5. Il ricorso proposto dalla parte pubblica nei confronti di R.F.A. è fondato e merita accoglimento.
In primo luogo la sentenza è viziata per erronea applicazione della legge penale, in quanto la posizione di garanzia di tale imputato è stata esclusa in considerazione dell'asserita assenza di una delega nei suoi confronti, avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, prescindendo daLL'orientamento risalente e consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (da ultimo, Sez. 4, n. 8118 del 01/02/2017 ud. - dep. 20/02/2017, Rv. 269133 - 01). Difatti, in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda e, cioè, con i vertici dell'azienda stessa, ovvero col presidente del consiglio di amministrazione o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni (Sez. 3, n. 12370 del 09/03/2005, Rv. 231076), con la conseguenza che "gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione" (Sez. 4, n. 6280 del 11/12/2007, Rv. 238958). Peraltro, la delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono, comunque, essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega - così, in una fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo, riguardando beni realizzati anche con amianto, aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002 ud. - dep. 14/01/2003, Rv. 226999 - 01, che ha ritenuto che, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione e per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento - per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.
6. A ciò si aggiunga che la motivazione della sentenza impugnata è lacunosa, visto che ignora completamente taluni passaggi motivazionali di quella di primo grado, pur ribaltandone la decisione in ordine alla posizione di garanzia di R.F.A. - in particolare quei passaggi motivazionali in cui si è fatto un esplicito riferimento al ruolo di R.F.A. di vice-presidente della società, di membro del consiglio di amministrazione ed alla specifica delega, in materia di sicurezza del lavoro, risultante dal verbale del consiglio di amministrazione del 14 novembre 2002 (passaggi motivazionali che, peraltro, risultano riportati nella stessa sentenza di appello, v., ad esempio, a p. 125 e 134). Deve, difatti, ribadirsi che "il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte" (così in motivazione Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 ud. - dep. 03/04/2018, Rv. 272430 - 01).
7. Per completezza occorre rilevare che l'impugnazione della parte pubblica investe l'assoluzione di R.F.A. da tutti i reati a lui contestati e, quindi, sia dal reato di cui al capo A, sia dal reato di cui al capo G, come confermato dalle conclusioni del relativo ricorso, in cui si fa riferimento "in particolare" e non "soltanto" al delitto di cui all'art. 437 cod.pen.
8. In ordine al reato di cui al capo G, contestato a R.F.A. (omicidio ex art. 589, secondo comma, cod.pen. in danno di A.V. , deceduto in data 20 dicembre 2008, e A.C. Cosimo, deceduto in data 9 settembre 2005), occorre, tuttavia, annullare la sentenza impugnata senza rinvio, perché il fatto non sussiste (per difetto del nesso di causalità), in quanto, secondo quanto si evince dalla sentenza della Corte di appello di Lecce, ormai passata in giudicato rispetto agli altri co-imputati del medesimo capo G, il decesso di A.C. ed A.V. non è stato causato, alla luce della perizia del dott. M., espletata nel giudizio di secondo grado, dal mesotelioma, collegato alla presenza di sostanze nocive nell'ambiente di lavoro (v. p. 164 ss. ed in particolare p. 190).
In proposito occorre ricordare che l'art. 129 cod.proc.pen. è applicabile anche in sede di legittimità laddove la sussistenza di una causa di non punibilità emerga dagli atti, senza richiedere alcun accertamento o valutazione di merito (v., ad esempio, da ultimo Sez. 3 n. 24146 del 14/03/2019 ud. - dep. 30/05/2019, Rv. 275981 - 01, che, in applicazione di tale principio, ha affermato che la questione attinente alla procedibilità dell'azione penale è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento e, quindi, anche davanti alla Corte di cassazione, sebbene non dedotta nel grado di appello). Invero, Sez. 3, n. 394 del 25/09/2018 ud. - dep. 08/01/2019, Rv. 274567 - 01) ha precisato che, nel processo di legittimità, dalla disposizione di cui all'art. 609, comma 2, cod. proc. pen. deriva che la Corte possa rilevare la sussistenza dei presupposti per l'applicabilità dell'art. 129 cod. proc. pen. solo se dalla sentenza impugnata emergano elementi che depongano in maniera evidente in tal senso, costituendo tale condizione necessaria espressione dei limiti di cognizione propri di tale giudizio.
Nel caso di specie, come già evidenziato, dalla sentenza gravata, che sul punto non è stata impugnata e che, dunque, risulta definitiva, quantomeno nei confronti degli altri coimputati, si evince che il reato di cui al capo G è stato escluso, perché il fatto non sussiste, per difetto del nesso causale tra la condotta contestata ed il decesso dei due lavoratori A.C. ed A.V.. Tale accertamento, sebbene non compiuto nei confronti di R.F.A.., in quanto assolto dalla Corte di appello per non aver commesso il fatto, si estende al medesimo in virtù di prìncipi generali ricavabili dagli artt. 587 cod.proc.pen. e 630, lett. a), cod.proc.pen. (da segnalare che, secondo Sez. 4, n. 14216 del 06/10/1989 ud. - dep. 25/10/1989, Rv. 182335 - 01, in tema di impugnazioni, anche nell'ipotesi di cooperazione nel delitto colposo, prevista dall'art. 113 codice penale, oltre che in quella di concorso nello stesso reato, ex art. 110 detto codice, va fatta applicazione del principio dell'effetto estensivo, qualora gli imputati siano stati chiamati a rispondere dello stesso fatto in base ad elementi di colpa generica e specifica comuni; in tal caso, l'estensione del motivo di ricorso al non ricorrente mira ad evitare una possibile contraddittorietà di giudicati). Il giudice del rinvio non potrebbe, del resto, pervenire ad una decisione diversa, atteso che la sua libertà è completa solo quando la precedente sentenza di merito sia stata totalmente messa nel nulla dalla pronuncia della Cassazione, mentre è condizionata quando l'annullamento sia stato parziale mantenendo pieno effetto ad alcuni punti e ad alcuni pronunciati della sentenza annullata. In tale seconda ipotesi, la sentenza del giudice di rinvio deve necessariamente integrarsi con quella parte della precedente sentenza che è rimasta valida, per cui, quando l'annullamento da parte della Corte regolatrice riguarda alcuni coimputati, la libertà del giudice di rinvio non può essere cosi ampia da consentire di travolgere - sia pure nei confronti di coloro per cui il processo è rimasto in vita per effetto di un annullamento a seguito di accoglimento del ricorso del P.m. - quelle parti dell'originaria sentenza che risolvevano questioni di fatto o di diritto comuni a tutti i coimputati (in questo senso Sez. 6, n. 4416 del 21/12/1984 ud.-dep. 08/05/1985, Rv. 169090 - 01). Il procedimento resta, difatti, unitario e le pronunce sono legate da un'unica logica interna, che non consente di mettere in discussione le questioni ormai precluse.
9. In ordine al reato di cui al capo A, valgono le medesime considerazioni già espresse per l'imputato C.L., per cui va dichiarata la prescrizione, con la precisazione, però, che la stessa è maturata nei confronti di R.F.A. in data 10 dicembre 2014, tenuto conto della sua cessazione dalla carica in data 2 maggio 2007, come risultante da documentazione in atti, prodotta dalla difesa all'udienza del 24 febbraio 2017 dinanzi alla Corte di appello, puntualmente richiamata all'udienza del 4 febbraio 2020 dinanzi alla Corte di cassazione, e tenuto conto, altresì, del periodo di sospensione di 38 giorni - data, comunque, successiva alla pronuncia di primo grado del 23 maggio 2014 (depositata in data 4 settembre 2014), le cui statuzioni civili conseguenti al reato di cui all'art. 437, primo comma, cod.pen., quindi, rivivono, per effetto dell'annullamento della sentenza di secondo grado, salva la necessità che il giudice civile valuti, nella quantificazione del danno, la diversa qualificazione data al reato in secondo grado.
In proposito occorre sottolineare che la Corte di appello non si è soffermata sulla data della cessazione dalla carica dell'imputato R.F.A.., trattandosi un evento irrilevante in conseguenza dell'assoluzione. La Corte di cassazione deve, invece, tenere conto, ai fini della pronuncia ex art. 129 cod.proc.pen., di tale evento, che, come già evidenziato, risulta dalle allegazioni puntuali della difesa all'udienza del 4 febbraio 2020, in base a documentazione già prodotta nel giudizio di merito e nuovamente allegata,
10. Per mera completezza deve sottolinearsi che l'incertezza relativa alla disciplina applicabile in materia di prescrizione, la cui maturazione è stata esclusa nella prospettazione della pubblica accusa, determina la sussistenza dell'interesse all'impugnazione, per cui non risulta pertinenti il principio applicato da Sez. 4 n. 16029 del 28/02/2019 ud.-dep. 12/04/2019, Rv. 275651 - 01 (è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" e volto ad ottenere l’annullamento per prescrizione maturata successivamente, atteso che il mezzo di impugnazione deve perseguire un risultato non solo teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole).
11.In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di R.F.A.. relativamente al reato di cui al capo di imputazione G, perché il fatto non sussiste, mentre va annullata senza rinvio nei confronti di R.F.A.. e C.L. relativamente al reato di cui al capo di imputazione A, perché il reato è estinto per prescrizione, maturata per il primo in data 10 dicembre 2014 e per il secondo in data 8 agosto 2017.
L'annullamento dei capi della sentenza di secondo grado con cui R.F.A.. è stato assolto per il reato di cui al capo A e con cui si è dichiarato non doversi procedere nei confronti di C.L. per il reato di cui al capo A, per prescrizione intervenuta già prima della pronuncia di primo grado, comporta la riviviscenza delle statuizioni civili, collegate a tale reato e contenute nella sentenza di primo grado. Dette statuzioni civili erano, difatti, state revocate dal giudice di appello in via conseguenziale rispetto ai capi della sentenza oggi annullati, sicché, in virtù di tale annullamento, sono ripristinate, visto che l'accertata prescrizione si colloca in epoca successiva alla pronuncia di primo grado. In questa sede, come già evidenziato, non vi sono, difatti, i presupposti per una pronuncia assolutoria ex art. 129 cod.proc.pen., né devono rivalutarsi gli appelli degli imputati, non essendo prevista e non essendo stata, del resto, proposta un'impugnazione incidentale.
Proprio in ragione di ciò, gli imputati risultano soccombenti rispetto alla parte civile costituita ed intervenuta all'udienza del 4 febbraio 2020 e vanno condannati alla rifusione delle spese nei suoi confronti.
 
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R.F.A. relativamente al reato di cui al capo G), perché il fatto non sussiste.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R.F.A. e C.L. relativamente al reato di cui al capo A), per essere il reato estinto per prescrizione.
Condanna gli imputati in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Associazione italiana esposti amianto, che liquida in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 4 febbraio 2020